Ha fatto il giro del mondo la copertina che l’Economist ha dedicato alla rivoluzione mondiale nel sistema della salute. Doctor you è stato il titolo scelto dai giornalisti della testata anglosassone. Un dossier che ha argomentato come oggi i dati stiano rivoluzionando un settore molto complesso, articolato, con una pluralità di attori per una moltiplicazione emergente di soluzioni: startup, imprese farmaceutiche, pazienti, operatori medico-clinici, caregiver.«Quando parliamo di rivoluzione digitale del mondo della salute non possiamo fare a meno di pensare come già oggi le nuove tecnologie stanno cambiando il modo di vivere la salute. E il tutto con un impatto significativo sia sul modo di curarci, sia di interagire all’interno del sistema sanitario stesso. In questa trasformazione tutti gli attori hanno un ruolo fondamentale nel costruire insieme la salute del prossimo futuro», afferma Roberto Ascione, CEO di Healthware e autore de Il Futuro della Salute edito da Hoepli. Proprio Ascione col suo team di lavoro darà nuovamente vita a Berlino all’appuntamento annuale Frontiers of ealth, che si terrà giovedì 15 e venerdì 16 novembre (qui per registrarsi). E poi sarà sempre Ascione a guidare i lavori del segmento salute allo StartupItalia! Open Summit 2018 previsto al Palazzo del Ghiaccio di Milano il prossimo lunedì 17 dicembre (qui per registrarsi).
Connessa, predittiva, digitale e necessariamente empatica: la salute del futuro abita già nel presente
Su un punto Ascione non ha dubbi: la rivoluzione della salute sarà totalizzante. «Quella della salute digitale è e sarà una vera e propria rivoluzione perché permetterà a tutti i player del settore di ridisegnare i processi di produzione ed erogazione di servizi e le modalità di fruizione della salute per i suoi utenti. Ognuno di noi potrà essere parte e motore di questa digital transformation studiandola, incoraggiarla o semplicemente adottando nuovi comportamenti», precisa Ascione. Un impatto non solo infrastrutturale, ma culturale. «Ci stiamo confrontando con un totale cambio paradigmatico che non sarà solo tecnologico, ma soprattutto culturale dal momento che i veri protagonisti di questo cambiamento siamo tutti noi. Per questo credo che il vero successo della digital health si definirà nella sua capacità di consentire ai sistemi sanitari e alla medicina di diventare più umani. Ovvero sostenibili, accessibili ed egualmente distribuiti. Data la complessità del sistema della salute e le straordinarie implicazione etiche solo con il contributo di tutti e la messa a sistema delle diverse iniziative, la digital health potrà essere l’opportunità per avere una salute più umana, personalizzata, preventiva e partecipativa, dove si recupererà la vera centralità del paziente e delle sue esigenze».
Roberto Ascione, da anni studia l’evoluzione della salute digitale, con cittadini-utenti e pazienti siamo sempre più connessi e in mobilità. In che modo la diffusione di smartphone e tablet sta trasformando questo settore?
«Negli ultimi anni abbiamo assistito e sperimentato in prima persona a una miniaturizzazione dei dispositivi, che da ingombranti e costosi stanno diventando oggi sempre più piccoli e meno invasivi, talvolta addirittura ingeribili. La diffusione sempre più pervasiva di smartphone e tablet, ma penso soprattutto ai wearable e il conseguente utilizzo sempre più frequenti di app, consente prima di tutto la raccolta di una quantità enorme di informazioni e dati che, se analizzati ed elaborati nel modo giusto, possono essere di grande utilità dal punto di vista medico-sanitario».
I risultati dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità del Politecnico di Milano fotografano una lenta alfabetizzazione alle nuove tecnologie, ma ancora un ruolo di primo piano nella relazione fisica tra medico-paziente. Che impatto hanno questa tecnologia nel contatto con la classe medica?
«La digitalizzazione resta un’opportunità offerta dai dispositivi digitali che consente di migliorare il rapporto medico-paziente, aumentare la fiducia del paziente nella capacità di gestire la sua malattia e di conseguenza migliorare l’adesione alla terapia. Allo stesso tempo però l’uso di device sempre più precisi e affidabili consente di identificare modelli in grado di semplificare i processi decisionali, ridurre i tempi e migliorare la qualità dei servizi medico-sanitari».
Si parla certamente di dati e della loro lettura, come abbiamo scritto in testa al pezzo ricordando la ormai notissima copertina dell’Economist. Ma che tipo di alfabetizzazione digitale dovrebbe avvenire? E soprattutto oggi quali Paesi e strutture sono più avanti in questo percorso?
«La scienza guidata dai dati segna certamente una nuova fase della nostra storia, dove esperimento, teoria ed elaborazione dei dati trovano sintesi nella statistica. L’uso dei big data per effettuare screening di massa e prevenzione si basa sull’individuazione di pattern, di regolarità, di ripetizioni cicliche che ci permettono di elaborare predizioni. Nella scienza medica la tecnica predittiva è resa possibile grazie ai progressi tecnologici e in ambito biomedico e alla disponibilità a un’enorme mole di dati. Alfabetizzazione significa imparare ad affrontare le difficoltà oggettive nel governare questa enorme massa di dati».
Nel volume “21 lezioni per il XXI Secolo”, scritto dal saggista e docente universitario Yuval Noah Harari, e uscito a fine agosto in Italia per Bompiani, si sostiene che è plausibile che l’industria della cura della persona rimanga un bastione umano per lungo tempo. “La cura degli anziani sarà uno dei settori a più alto tasso di crescita del mercato del lavoro umano, ma con ogni probabilità avremo un dottore dell’Intelligenza Artificiale sul nostro smartphone decenni prima di avere un robot infermiere affidabile…”. Che ne pensa?
«Diciamo che entro il 2020 l’intelligenza artificiale permetterà di coadiuvare al meglio il lavoro dei medici, consentendo loro di prescrivere la miglior cura possibile. Già oggi diverse aziende dislocate in varie parti del mondo stanno lavorando su applicazioni di IA in ambito di assistenza sanitaria. Penso a Deepmind Healthcontrollata di Google e che in pochi minuti elabora migliaia di dati e informazioni mediche, traducendole in servizi. Anche Your.MDutilizza algoritmi di IA che supportano il triage dei sintomi inseriti tramite un’interfaccia simile ad una, ormai familiare, chat. Alfabetizzazione significa anche mettere al centro il paziente, rendendolo consapevole del fatto che potrà collezionare una mole enorme di dati, che potrà consultare e rendere accessibile la propria cartella clinica. Il tema è delicato ma al contempo cruciale per il futuro della gestione della salute».
Voi monitorate l’innovazione europea e mondiale nel campo della salute: da quali ambiti arrivano le soluzioni più promettenti?
«Uno degli ambiti più interessanti riguarda la tecnologia delle interfacce cosiddette “conversazionali”. Tutti noi quotidianamente utilizziamo app e chat, e tale utilizzo si afferma sempre di più anche in ambito salute. Si va consolidando il trend “do it yourself” che non vuole dire auto-cura ma, in altre parole, fare da soli tutto il possibile senza caricare il sistema (sanitario) inutilmente. Mi viene in mente tale approccio in ambito dermatologico e più in generale nell’interpretazione degli esami di laboratorio o quelle dei dati raccolti con strumenti di tracking a livello di triage o di auto-controllo prima di rivolgersi al proprio medico e quindi per farlo in modo più consapevole».
Arriveremo in una dimensione di auto-cura ad utilizzare le app per i nostri problemi di salute?
«Curarsi con le app sembrerà un concetto bizzarro, ma si tratta di uno scenario che si sta già concretamente delineando, cruciale per gli anni a venire. Mi riferisco alle terapie digitali che in un futuro non troppo lontano potrebbero permettere alle persone di curarsi con soluzioni tecnologiche, che una volta clinicamente validate da trial clinici e approvate da agenzie regolatorie, potranno integrare o potenzialmente sostituire le terapie tradizionali. Di terapie digitali abbiamo parlato intorno al 2010 con Sean Duffy di Omada Health, che oggi insieme ad altre società del settore – Pear, Akili, Propeller Health, Voluntis ed altre – fa parte della Digital Therapeutics Alliance con lo scopo di favorire la comprensione e l’adozione delle terapie digitali, ma soprattutto individuare un sistema di regolamentazione e validazione scientifica per stabilire quando se una tecnologia può essere considerata o meno una terapia digitale in collaborazione con le agenzie regolatorie, quali la FDA negli USA».
In questo mondo della salute che è fatto di ricerca medico-scientifica, sperimentazione, competenza, ma anche velocità di sapersi adeguare a scenari in forte trasformazione – viviamo in un mondo liquido e connesso! – che rilevanza avranno i colossi del farmaceutico, delle scienze della vita dell’hi-tech rispetto alle proposte delle startup e degli spinoff accademici? In che modo si potrebbero creare dinamiche virtuose tra questi attori così differenti?
«Da più di un decennio il modello tradizionale dell’innovazione delle grandi aziende è stato messo profondamente in discussione. Il paradigma per il quale bisognava realizzare l’innovazione all’interno delle proprie mura, creando strutture di ricerca e sviluppo dedicate, al fine di ottenere un vantaggio sulla concorrenza, è stato ribaltato dal nuovo approccio della open innovation. È evidente che le corporation e le grandi aziende traggono vantaggio da questa contaminazione, che deriva dalle collaborazioni non solo con startup ma anche con università e centri di ricerca. In ambito sanitario, data la crescente rilevanza del digitale in medicina, l’open innovation può produrre risultati molto interessanti. La salute, mediata da strumenti digitali, si sta trasformando da semplice stato a prassi quotidiana. E tale shift permette alle startup di proporsi come veri driver di trasformazione, in quanto capaci maggiormente di percepire le necessità del mercato e trasformarle in soluzioni ad alto contenuto innovativo».
C’è una via italiana all’innovazione nella digital health oggi? Se si a cosa fa riferimento?
«Rispetto agli scorsi anni la salute digitale sta lentamente crescendo, anche se siamo ancora indietro, a differenza di quanto sta avvenendo in alcuni Paesi europei. In ogni caso l’innovazione nella digital health è già in atto, basti pensare al fatto che gli stessi medici sono sempre più digitali e così anche il loro rapporto con i pazienti. Tra i driver di cambiamento ad aver un ruolo fondamentale sono le startup che hanno l’opportunità di condividere le proprie soluzioni innovative con le imprese farmaceutiche o le grandi organizzazioni più tradizionali accelerando così la digitalizzazione di tutto il mondo salute. La via italiana alla digital health può essere infatti proprio quella di rafforzare i processi di open innovation tra startup innovative e i diversi player dell’industria farmaceutica, assicurativa e dell’assistenza sanitaria collegandoli ad un tessuto scientifico che negli anni ha prodotto significative innovazioni nei campi sia farmaceutico sia dei dispositivi medici.
Il problema è semmai che molte di tali innovazioni si sono poi sviluppate, industrialmente, all’estero e su questo aspetto dobbiamo lavorare. Principalmente organizzando la filiera dell’innovazione (aperta) razionalizzando, come ecosistema, gli sforzi in modo da colmare rapidamente il gap.
Noi come Healthware abbiamo intrapreso questo cammino con un focus sullo sviluppo dell’ecosistema Italiano che è partito ormai alcuni fa. Penso alla versione Italiana della conferenza internazionale Frontiers Health oppure a progetti di divulgazione tramite il supporto di digitalhealthitalia.com, ad alleanza con incubatori come Digital Magics e soprattutto il lancio dell’hub internazionale di digital health presso il Palazzo Innovazione di Salerno. In pochi mesi questo spazio ex-monastero aziende e startup da varie parti del mondo si sono incontrate per disegnare insieme pezzi di futuro della salute».
In questa rivoluzione cosa è da temere soprattutto?
«Come ogni rivoluzione anche quella della salute potrà con sé tante paure. Tra le principali c’è sicuramente la grande quantità di dati e informazioni personali di noi tutti che saranno disponibili e che su cui ci sarà molto da lavorare per evitare l’insorgere di problematiche etiche e legali. Un approccio digitale alla salute richiede ed a mio avviso potrebbe facilitare un recuperare la fiducia sia nel rapporto medico-paziente sia nelle diverse e numerose interazioni dei pazienti con il sistema sanitario stesso. Altro timore diffuso riguarda il cambiamento della figura del medico, che non verrà affatto sostituito dalle nuove tecnologie, ma anzi avrà il compito di confrontarsi empaticamente maggiormente con il paziente e le sue necessità e ricoprirà un ruolo cruciale nella validazione scientifica delle future pratiche digitali. Ovviamente la classe medica andrà formata su questi temi, cosa che ancora non è partita al livello di intensità necessario».
Giampaolo Colletti è giornalista per varie testate, da anni firma di StartupItalia! e curatore dell’agenda dello StartupItalia! Open Summit 2018. Giampaolo è anche Audience & Content Manager di Sanofi Italia.